Una citazione di Frank Lloyd Wright può essere utile per avviare la riflessione sull’architettura e sul mestiere dell’architetto secondo la visione e l’esperienza professionale di Giampiero Camponovo, che si dipanano lungo oltre cinquant’anni di attività e ne fanno uno degli architetti ticinesi più noti e affermati anche a livello internazionale: “L’architetto artista sarà un uomo ispirato dall’amore per la Natura, e conoscerà che non l’uomo è fatto per l’architettura, ma l’architettura per l’uomo. Non vedrà mai nel mestiere dell’architetto un affare, ma sempre una religione, fondamentale per il benessere e la cultura dell’umanità, come, al suo supremo livello, è sempre stata. E dobbiamo riconoscere l’architetto creativo come poeta e interprete della vita…”
All’astrattezza cui spesso indulge il dibattito architettonico, Giampiero Camponovo preferisce la concretezza dei progetti e delle opere, sempre realizzate tenendo conto di chi quegli spazi è chiamato ad abitare. Secondo la sua visione della professione di architetto, le linee, le forme, i materiali utilizzati raccontano molto più di mille parole ciò che ciascuno sa esprimere e le emozioni che vuole trasmettere; ma, anche, la sua idea dell’architettura e, prima ancora, la sua concezione della vita e dunque il ruolo che debbono avere funzioni fondamentali come il lavorare, l’abitare, il vivere i diversi momenti di una giornata. In questo senso, dopo anni di lavoro e decine di edifici prestigiosi costruiti, resta ancora convinto che l’architettura possa assolvere un ruolo fondamentale: quello di rispondere nel miglior modo possibile ai bisogni primari dell’uomo, dal punto di vista sia materiale che spirituale. “Chi mi conosce sa che in tutta la mia vita mi sono tenuto lontano dai facili proclami preferendo sempre il fare, cioè progettare e costruire, piuttosto che il parlare, cioè enunciare principi e teorie che spesso si sono rivelati essere solo esercizi di stile. Tuttavia, credo sia legittimo chiedere agli architetti di scegliere ‘quale città’ hanno in mente, e per quali esigenze. Ci sarebbe il bisogno di tornare a parlare di identità di un luogo e, se si vuole, di come modificarlo. Per fare solo un esempio, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento le città sono state riprogettate per accogliere la ferrovia e le stazioni ferroviarie, e pertanto l’elemento della mobilità, dell’incontro ‘intermodale’ di gente che va e viene per spostarsi, è diventato il fulcro della vita delle città. E prima ancora, nel Medioevo, la creazione della piazza – con ai due lati il potere religioso (la chiesa) e dall’altro il potere civile (il municipio) – è stato l’elemento costitutivo del nascere e dello svilupparsi della civiltà europea. Adesso che tipo di città vogliamo? Gli architetti devono porsi il problema di un’urbanizzazione periferica. Oggi il vivere lungo una strada, come avviene per la maggioranza delle persone, non è più un valore, un arricchimento di vita. È solo l’abitare in un’infinita periferia, fuori dai contesti culturali dei maggiori centri storici cittadini, ricchi delle loro scuole e università, di una mobilità efficiente, di opportunità che accrescono la propria cittadinanza, le relazioni, i rapporti umani e i valori identitari… Quello che manca è l’esplicitazione dei modelli di architettura e di urbanistica che ci piacerebbe avere nei prossimi decenni. Sicuramente è inopportuno lo sviluppo a macchia d’olio di un tessuto urbano puntiforme come spesso avviene oggi. “L’architettura può essere in un certo senso paragonata all’alta moda: ci sono le grandi firme, quelle che attirano su di sé l’attenzione dei riflettori e indicano le linee di tendenza, ma poi resta il problema del vestire – o dell’abitare – di tutti i giorni. Non è un caso che i grandi progetti siano in massima parte applicati a tipologie di edifici pubblici (teatri, musei, luoghi di culto) destinati a diventare segni o addirittura simboli dell’intera città. La stragrande maggioranza dell’attività edilizia è però legata alla committenza privata, che costruisce manufatti residenziali e strutture da adibire a uffici. Ed è su questo terreno della funzionalità che si misura la capacità di offrire soluzioni di pregio, che tengano conto al tempo stesso dei vincoli imposti dallo spazio, dal contesto ambientale in cui si opera, dalle volumetrie, dalla scelta dei materiali e, naturalmente, dai costi di costruzione. In questo quadro fare architettura può essere molto difficile. Non bisogna mai dimenticare che la centralità di tutto questo è sempre la persona. Progettare edifici dove la funzionalità, la luce o gli spazi sono stati sacrificati a vantaggio di aspetti architettonici formali è davvero travisare il primo scopo del costruire.”