IL PROCESSO DEL FARE

Il Processo del Fare - G. Camponovo

SKIRA , editore a cura di Eduardo Grottanelli de'Santi

Una citazione di Frank Lloyd Wright può essere utile per avviare la riflessione sull’architettura e sul mestiere dell’architetto secondo la visione e l’esperienza professionale di Giampiero Camponovo, che si dipanano lungo oltre cinquant’anni di attività e ne fanno uno degli architetti ticinesi più noti e affermati anche a livello internazionale: “L’architetto artista sarà un uomo ispirato dall’amore per la Natura, e conoscerà che non l’uomo è fatto per l’architettura, ma l’architettura per l’uomo. Non vedrà mai nel mestiere dell’architetto un affare, ma sempre una religione, fondamentale per il benessere e la cultura dell’umanità, come, al suo supremo livello, è sempre stata. E dobbiamo riconoscere l’architetto creativo come poeta e interprete della vita…”
All’astrattezza cui spesso indulge il dibattito architettonico, Giampiero Camponovo preferisce la concretezza dei progetti e delle opere, sempre realizzate tenendo conto di chi quegli spazi è chiamato ad abitare. Secondo la sua visione della professione di architetto, le linee, le forme, i materiali utilizzati raccontano molto più di mille parole ciò che ciascuno sa esprimere e le emozioni che vuole trasmettere; ma, anche, la sua idea dell’architettura e, prima ancora, la sua concezione della vita e dunque il ruolo che debbono avere funzioni fondamentali come il lavorare, l’abitare, il vivere i diversi momenti di una giornata. In questo senso, dopo anni di lavoro e decine di edifici prestigiosi costruiti, resta ancora convinto che l’architettura possa assolvere un ruolo fondamentale: quello di rispondere nel miglior modo possibile ai bisogni primari dell’uomo, dal punto di vista sia materiale che spirituale. “Chi mi conosce sa che in tutta la mia vita mi sono tenuto lontano dai facili proclami preferendo sempre il fare, cioè progettare e costruire, piuttosto che il parlare, cioè enunciare principi e teorie che spesso si sono rivelati essere solo esercizi di stile. Tuttavia, credo sia legittimo chiedere agli architetti di scegliere ‘quale città’ hanno in mente, e per quali esigenze. Ci sarebbe il bisogno di tornare a parlare di identità di un luogo e, se si vuole, di come modificarlo. Per fare solo un esempio, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento le città sono state riprogettate per accogliere la ferrovia e le stazioni ferroviarie, e pertanto l’elemento della mobilità, dell’incontro ‘intermodale’ di gente che va e viene per spostarsi, è diventato il fulcro della vita delle città. E prima ancora, nel Medioevo, la creazione della piazza – con ai due lati il potere religioso (la chiesa) e dall’altro il potere civile (il municipio) – è stato l’elemento costitutivo del nascere e dello svilupparsi della civiltà europea. Adesso che tipo di città vogliamo? Gli architetti devono porsi il problema di un’urbanizzazione periferica. Oggi il vivere lungo una strada, come avviene per la maggioranza delle persone, non è più un valore, un arricchimento di vita. È solo l’abitare in un’infinita periferia, fuori dai contesti culturali dei maggiori centri storici cittadini, ricchi delle loro scuole e università, di una mobilità efficiente, di opportunità che accrescono la propria cittadinanza, le relazioni, i rapporti umani e i valori identitari… Quello che manca è l’esplicitazione dei modelli di architettura e di urbanistica che ci piacerebbe avere nei prossimi decenni. Sicuramente è inopportuno lo sviluppo a macchia d’olio di un tessuto urbano puntiforme come spesso avviene oggi. “L’architettura può essere in un certo senso paragonata all’alta moda: ci sono le grandi firme, quelle che attirano su di sé l’attenzione dei riflettori e indicano le linee di tendenza, ma poi resta il problema del vestire – o dell’abitare – di tutti i giorni. Non è un caso che i grandi progetti siano in massima parte applicati a tipologie di edifici pubblici (teatri, musei, luoghi di culto) destinati a diventare segni o addirittura simboli dell’intera città. La stragrande maggioranza dell’attività edilizia è però legata alla committenza privata, che costruisce manufatti residenziali e strutture da adibire a uffici. Ed è su questo terreno della funzionalità che si misura la capacità di offrire soluzioni di pregio, che tengano conto al tempo stesso dei vincoli imposti dallo spazio, dal contesto ambientale in cui si opera, dalle volumetrie, dalla scelta dei materiali e, naturalmente, dai costi di costruzione. In questo quadro fare architettura può essere molto difficile. Non bisogna mai dimenticare che la centralità di tutto questo è sempre la persona. Progettare edifici dove la funzionalità, la luce o gli spazi sono stati sacrificati a vantaggio di aspetti architettonici formali è davvero travisare il primo scopo del costruire.”

Architetture per l’uomo

Il lavoro di Giampiero Camponovo si basa dunque su due elementi fondamentali: l’uomo e l’ambiente, che rappresenta il contesto all’interno del quale l’architetto è chiamato a operare. Partire dai “reali” bisogni dell’essere umano e, in sintonia con esso, dal valore dell’ambiente che esso abita significa avere l’obiettivo di realizzare luoghi di qualità mediante un approccio sosteniatbile al fine di ridurre il consumo di risorse non rinnovabili e di porre al centro della progettazione i bisogni delle persone. Si tratta, in altre parole, di individuare le soluzioni più efficaci per ogni specifico contesto ambientale, sociale ed economico. Si impone dunque il concetto di civitas che, favorendo lo sviluppo delle relazioni interpersonali e interculturali, accresce il senso della comunità e con esso il bene collettivo come valore. Questo patrimonio comunitario non è la sommatoria dei beni individuali, bensì una ricchezza che appartiene a tutti e a ognuno. Per raggiungere questi obiettivi è necessario ridefinire il concetto di “benessere”, che riguarda la salute, la sicurezza e più in generale la “qualità” del nostro lavorare, studiare, divertirci, spostarci e, naturalmente, abitare. “Volendo dare una definizione della mia architettura, direi che essa ricerca in primo luogo la qualità della vita delle persone che abitano, lavorano e vivono all’interno degli edifici che costruisco. Questo interesse per il benessere della persona, posto al centro di ogni progettualità architettonica, risale probabilmente a un periodo della mia giovinezza quando con la mia famiglia ci trasferimmo in un palazzo di Lugano: prestigioso, forse addirittura monumentale, ma dentro al quale avvertivo un certo disagio e mi muovevo senza troppa gioia. La qualità dell’abitare si raggiunge attraverso la luce, la trasparenza, l’utilizzo di determinati materiali. Quello della luce è un aspetto a cui sono sempre stato particolarmente attento perché convinto che ogni costruzione debba essere uno spazio in grado di comunicare con l’esterno innanzitutto attraverso la luce e le trasparenze. Un altro tema che mi è particolarmente caro è l’organizzazione dei volumi attorno a spazi capaci di creare un sistema di relazioni, perché è fondamentale la dimensione sociale del vivere e dell’abitare. Le case non devono essere spazi chiusi all’interno dei quali isolarsi, e gli uffici non possono tradursi in luoghi nascosti e isolati. L’uomo ha per sua natura bisogno di vedere ed essere visto, di scambiare sentimenti ed emozioni, di aggregarsi con gli altri. La necessità di stabilire relazioni sociali costituisce uno dei bisogni primari, e l’organizzazione di uno spazio intorno al quale gravita la vita – in tutte le sue manifestazioni – dovrebbe essere sempre una delle preoccupazioni principali dell’architettura. Questo principio può essere applicato a ogni genere di edificio, che si tratti di un complesso residenziale, di un luogo di lavoro, di una struttura ospedaliera o di una chiesa.”
Osservando le architetture di Giampiero Camponovo emerge subito come la sua riflessione sui temi dell’abitare sia costantemente improntata al soddisfacimento di esigenze elementari e complesse. Le abitazioni, così come gli ambienti lavorativi, sono spazi artificiali costruiti dall’uomo per l’uomo, all’interno dei quali riconoscere e gratificare le necessità biologiche e sociali. Nell’evolversi della società mutano i bisogni dell’individuo e di conseguenza le forme dell’abitare, la cui etimologia si riferisce proprio all’avere “consuetudine in un luogo”, quindi non solo essere chiusi all’interno delle mura domestiche o dell’ufficio, bensì interagire con i luoghi, con il tempo e con lo spazio. L’abitare rappresenta l’azione propria dell’uomo che riflette e non subisce semplicemente la vita e le sue fatiche. In questo, il termine “abitare” riassume il senso della cura di sé, e anche degli altri. “La casa offre riparo per le necessità basilari dell’esistere. Per questo un architetto dovrebbe avere sempre presente il tema della funzionalità di ciò che intende costruire, senza mai sacrificare al culto della forma, o meglio dei formalismi, le proprie scelte progettuali, considerando non solo gli aspetti organizzativi della condivisione degli spazi ma anche la dimensione personale: i significati profondi dell’abitare, che ciascuno si porta dietro, l’esigenza di uno spazio individuale, il rispetto dell’intimità di ciascuno. La casa non è uno spazio statico ma piuttosto di relazioni, di equilibri tra interno ed esterno, tra bisogni e desideri, tra intelligenza e ragione, per essere, in ultima istanza, luogo in cui il soggetto si prende cura della propria vita. L’aspetto architettonico di un progetto deve dunque accompagnare sempre la soddisfazione dei bisogni. In altre parole, occorre evitare che un sistema finisca con imporre la propria coerenza interna, quindi se stesso, a discapito della domanda che l’ha suscitato. Quando il mezzo smarrisce o tralascia la destinazione per la quale è stato creato assume se stesso come fine in una tensione autoconservatrice. “Si tratta di un fenomeno di portata generale al quale purtroppo non si sottrae neppure l’architettura. Nelle riviste, nei quotidiani, in televisione le opere delle superstar dell’architettura sono oggetto della curiosità di lettori sebbene completamente digiuni in materia. Eppure tali opere non sempre incidono sul miglioramento della vita della gente. Questo accade perché l’architettura è diventata, appunto, un gioco autoreferenziale, tutta incentrata sulla ‘firma’, sulla genialità del singolo architetto, quotata sulla borsa della moda al pari di un qualunque brand. L’architettura ha molta influenza, nel bene e nel male, sulle condizioni dell’abitare in città. Gli architetti però si rifugiano in una artisticità che vorrebbe giustificare qualsiasi scelta. A essi spesso viene affidata la trasformazione di intere porzioni di città, come se si trattasse solo di un fatto formale. Le città funzionano diversamente: sono il territorio profondo su cui agisce l’inconscio collettivo, sono il luogo delle appartenenze e dei conflitti. Ciò non vuol dire abdicare alla qualità progettuale quanto piuttosto rinunciare a una certa spettacolarità dell’architettura fine a se stessa, com’è successo talvolta negli ultimi anni. Torniamo dunque a riflettere in modo più consapevole e maturo su quelli che sono i fondamenti della nostra disciplina e su quale debba essere il ruolo dell’architetto nella società contemporanea.”

La ricerca sui materiali

Negli anni le innovazioni prodotte nel campo dei materiali hanno radicalmente modificato il modo di concepire e realizzare gli organismi edilizi. Nuovi prodotti e sistemi si affacciano ogni giorno sul mercato, ampliando le alternative a disposizione del progettista, ma anche il patrimonio di conoscenze necessarie per un corretto impiego di tecnologie sempre più innovative basate sull’utilizzo di materiali avanzati. “In un’ottica del costruire sempre più orientata verso l’ottimizzazione e l’affidabilità delle prestazioni di prodotti e sistemi, nonché verso la sostenibilità economica e ambientale degli interventi architettonici, i materiali utilizzati possono contribuire alla realizzazione di soluzioni più efficienti in termini di risparmio energetico e di durata nell’intero ciclo di vita, attraverso l’utilizzo di minori quantità di materie prime, la capacità di facilitare e ridurre le operazioni di manutenzione necessarie, di produrre energia pulita o assorbire agenti inquinanti, garantendo durabilità e affidabilità prestazionale nel tempo. “È necessario tuttavia tenere in considerazione le conseguenze legate al rapporto di equilibrio che i materiali possono instaurare con l’ambiente, modellato dal continuo scambio di flussi di energia, di materia e di informazione che, se non pienamente controllati, potrebbero avere impatti negativi anche sulla salute degli individui. Nella mia attività di architetto ho sempre cercato di individuare soluzioni innovative o di sperimentare utilizzi diversi ricorrendo a materiali tradizionali. Se all’inizio ho costruito edifici in pietra e in legno, in tempi non sospetti sono andato contro le consuetudini correnti introducendo un uso del cemento armato lavorato ‘alla bocciarda’, al fine di rendere le superfici esteticamente più apprezzate e più durevoli nel tempo. “Analoghe considerazione potrebbero essere svolte a proposito della scelta, in anni più recenti, di realizzare facciate in metalli diversi, oppure vetrate. L’obiettivo è sempre quello di scegliere soluzioni adatte al livello delle conoscenze del momento, tenendo per esempio conto, attualmente, di una tendenza non più reversibile a rendere gli edifici sempre più performanti dal punto di vista del consumo energetico e dell’impatto ambientale. E tutto questo anche a costo di prendersi dei rischi, perché molte volte si sperimentano soluzioni, materiali, tecnologie assolutamente innovative e sulle quali non esiste ancora una consolidata letteratura. Come quando in Ticino ho realizzato la prima facciata ventilata. “L’adozione di nuove tecnologie rappresenta un tema particolarmente delicato nell’ambito della progettazione architettonica perché occorre continuamente domandarsi se l’adozione di soluzioni innovative va effettivamente a vantaggio dell’uomo, e se esse sono realmente compatibili con l’ambiente circostante.
“Si pensi a un fenomeno come quello dell’elettrosmog e ai danni che genera nelle abitazioni e sui luoghi di lavoro. È infatti desiderio di chiunque abitare in una casa confortevole, percepire il benessere determinato dalle sensazioni date da temperatura e umidità dell’aria, livelli di rumorosità e luminosità. Il comfort ambientale si identifica con il benessere psicofisico delle persone che vivono in esso (casa, ufficio, giardino) ed è una sensazione dipendente dalle condizioni ambientali che sono in gran parte pianificabili, e quindi rientranti nella responsabilità del progettista. Chi costruisce modifica l’ambiente, e farlo in modo sostenibile significa assumere la responsabilità per sé stesso, per i propri figli e per le generazioni future. Una buona progettazione, nel rispetto delle norme della bioedilizia, deve quindi tenere conto non solo della forma del lotto di terreno, ma anche delle energie presenti o carenti sul luogo e quali forze utilizzare per ottenere una dimora in armonia con le esigenze di chi vi abiterà. L’orientamento dei locali dovrà accordarsi con la posizione favorevole agli elementi di base, materiali da costruzione e forme saranno scelti tra quelli più adatti al raggiungimento del migliore equilibrio tra l’uomo e l’ambiente.”
Alla luce di queste considerazioni ed evoluzioni nel mestiere di architetto resta sempre il tratto, l’idea fulminante che marca il gesto progettuale, ma poi è tutto un lavoro che implica un ventaglio di competenze specialistiche che abbracciano campi diversi del sapere umano.
“Ormai non si costruisce più secondo i canoni consolidati da secoli di storia dell’architettura. L’adozione di nuove tecnologie e la loro integrazione in un progetto coerente implicano un costante aggiornamento e una continua ricerca di nuove soluzioni, avvalendosi anche del contributo di specialisti. Forse è proprio questa la sfida più stimolante che ci pone l’architettura contemporanea. Il compito dell’architetto è in un certo senso simile a quello di un direttore d’orchestra, di un maestro che deve armonizzare il ‘suono’ di tutti i ‘professori di musica’ per portare a compimento l’opera.”